Stop the competition

Spesso ci si trova a far parallelismi tra lo sport e la vita di tutti i giorni. Spesso si mitizzano quelli che sono gli insegnamenti positivi dello sport come tenacia e perseveranza, rendendoli credo assoluti, senza mai metterli in discussione, e pensando che siano la soluzione a tutti i nostri problemi, dentro e fuori i campi di gara.

Lo sport e l’agonismo mi hanno sicuramente dato molto da un punto di vista formativo, ma in quest’anno di grandi cambiamenti mi son trovato a guardare sotto un’altra luce una po’ tutto.

Mi chiedo se l’agonismo sia realmente qualcosa di utile alla vita sociale e lavorativa, soprattutto dal punto di vista umano. Ho dedicato un sacco di anni allo sport, prima da agonista tra nuoto e corsa, poi nel freestyle con la bmx e poi nuovamente da agonista nel triathlon.

Sicuramente la competizione è un grande valore da insegnare a un ragazzo, imparare a vincere ma soprattutto a perdere è un grosso valore da portarsi dentro.

Così come il metodo di lavoro e il sacrificio per perseguire il risultato.

Ma cosa succede quando il fuoco dell’agonismo rimane sempre lì, costantemente acceso dentro di noi, quando muta da sano valore istruttivo a patologico celodurismo?

Parlando a titolo personale mi rendo conto che di fatto, anche nel privato, tutte le volte che mi trovo in una situazione riconducibile a una competizione, come ad esempio discussioni, litigi o divergenze, la testa gira il manettino sulla modalità race e cominciano i dolori.

Situazioni che potrebbero essere catalogate nella sezione “puttanate di 2 minuti” diventano casi di stato al cui confronto la problematica israelo-palestinese è roba da lite condominiale.

La cosa preoccupante è che ho iniziato a rendermi conto di quest’aspetto solo nell’ultimo periodo e, forse per fissa personale, ho iniziato a osservarla anche in tutti gli sportivi praticanti intorno a me.

Basta aprire la home di un qualsiasi social il cui account è collegato a una buona comunità sportiva, per trovare battibecchi più o meno grossi sui più disparati temi, dove non vi è un dialogo realmente volto a creare un pensiero comune e costruttivo, ma si cerca solamente di annichilire i propri interlocutori nella speranza di ottenere la tanto agognata medaglia di finisher della discussione, giusto per appuntarsi un altro millisecondo di gloria fittizia sulla divisa.

Sarà veramente utile tutta questa voglia di primeggiare sugli altri? Fino a che punto la competizione è un motore virtuoso per elevare complessivamente il gruppo, e da quando inizia a diventare un perverso meccanismo egocentrico e socialmente distruttivo?

Se dovessi guardare all’immagine, il mondo del triathlon e della corsa tra società e gare è un bellissimo circo composto da gente in festa.

Ma nel vissuto quante invidie e quanti litigi si celano su questi palcoscenici, quanta gente mente, bara e magari si dopa per vincere la passata di pomodoro alla gara di paese…

Forse sarebbe veramente il caso di cambiare la tendenza, magari fare una gara in meno e bersi una birra in più con qualcuno, anche solo per ascoltarlo, per sentire qualcosa di nuovo che non sia la nostra cavalcata trionfale.

Più mi addentro nella mia esperienza sportiva, più mi rendo conto che tenacia, sofferenza e allenamenti, non fanno la differenza.

Quello che fa la differenza sono la pace e la felicità interiore, e queste le puoi trovare solo quando hai un rapporto equilibrato con te stesso e con chi ti sta attorno.

Qualche anno fa una persona mi disse “ricordati che tutti sono sostituibili”.

Io all’epoca, in pieno infoiamento agonistico, l’avevo preso come una grande opportunità per mettere sul campo il mio valore.

Guardandomi dietro, quelle stesse parole mi fanno solo ridere con un po’ di amarezza, perché sono una grande stronzata.

Nessuno è sostituibile, ciascuno ha il suo valore, e affermare una cosa del genere vuol dire, di fatto, trattare le persone come oggetti. Ed è una cosa veramente molto triste.

Forse il vero cambiamento che serve adesso nello sport è passare a un’inclusività reale, che porti al centro le relazioni personali e fuori dai confini competizioni, medaglie e inutili bandiere di società.

Forse la società di oggi ha bisogno di meno agonisti e di più amatori, perché nel dubbio è meglio amare che agonizzare.

Sergio Viganò

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