Finalmente siamo nuovamente entrati nell’anno olimpico, un anno che, forse più di altri, dovrebbe servire a riportare sopra tutto quelli che sono i reali valori dello sport.
Cinque cerchi intrecciati tra di loro, ciascuno di essi simboleggia un continente, ma soprattutto quello che viene rappresentato è l’unione che dovrebbe esserci tra questi.
I giochi trovano la loro origine nell’antica Grecia, inizialmente comprendevano solo la corsa ma si svilupparono rapidamente su più discipline, comprendendo anche il pugilato, la lotta e il pentathlon. Uno degli aspetti più interessanti e, a mio avviso, più formativi; è che in onore di essi e per tutta la loro durata (cinque giorni) venivano sospese le guerre in tutta la Grecia.
Questo avvenimento era noto come tregua olimpica, ed è una magnifica immagine di come sin dagli albori lo sport fosse in grado di fermare le barbarie e l’ignoranza dell’uomo.
Non solo nell’antichità ma anche nei giochi moderni, l’olimpiade si è fatta portatrice di un messaggio di pace e uguaglianza tra i popoli.
Emblematico il caso di Jesse Owens all’olimpiade di Berlino nel 1936, che dopo aver vinto ben 4 medaglie d’oro, rientrando nello spogliatoio sfilò davanti alla tribuna d’onore dove sedeva Hitler.

L’atleta statunitense a seguito di questo incrocio dichiarò successivamente nel suo libro: “Dopo essere sceso dal podio del vincitore, passai davanti alla tribuna d’onore per rientrare negli spogliatoi. Il Cancelliere tedesco mi fissò, si alzò e mi salutò agitando la mano. Io feci altrettanto, rispondendo al saluto. Penso che giornalisti e scrittori mostrarono cattivo gusto inventando poi un’ostilità che non ci fu affatto.”
Nel 1968 a Città del Messico fu un’olimpiade di grandi cambiamenti e di messaggi forti, tecnicamente fu la prima ad avere il tartan in pista e vide Dick Fosbury vincere l’oro nel salto in alto donando al mondo dell’atletica la tecnica di salto che porta il suo nome.
Fu la prima Olimpiade ad avere una Tedofora, Enriqueta Basilio.
Ma l’evento che divenne il simbolo di questa olimpiade fu senza dubbio la premiazione dei 200 metri piani in cui Tommie Smith, vincitore e primo uomo sotto i 20”, e il connazionale John Carlos alzarono il pugno con il guanto nero e ascoltarono l’inno nazionale con il capo abbassato in segno di protesta contro il razzismo.
Peter Norman, secondo classificato, partecipò alla protesta appuntandosi una spilla in favore dei diritti umani, gesto significativo e ammirevole, in quanto il silenzio è la più grande forma di complicità che possiamo dare ai violenti.
Risalendo rapidamente fino ai giorni nostri approdiamo alle Olimpiadi di Rio del 2016, edizione dei giochi che ha visto per la prima volta la partecipazione di una squadra di rifugiati.
A mio avviso una delle azioni più belle avviate dal comitato olimpico, un messaggio che evidenzia come l’abbraccio dei cinque cerchi accolga tutti, soprattutto chi proviene da nazioni dove la libertà gli è negata.
In questo modo non solo viene data l’opportunità di gareggiare, ma si permette a chi è in difficoltà di portare i problemi e le ingiustizie, cui lui e centinaia di altre persone sono stati sottoposti, davanti agli occhi del mondo intero.
Questo tema è ancora più caldo in questi giorni, poche settimane fa Kimia Alizadeh, vincitrice del Bronzo Olimpico a Rio, si è trovata costretta ad abbandonare la sua nazione, l’Iran.

La 21enne persiana ha dichiarato tramite i suoi social, «Non voglio più sedere al tavolo dell’ipocrisia, delle menzogne dell’ingiustizia e della piaggeria».
L’atleta in uno sfogo ha dichiarato tutto il suo malessere nei confronti di uno stato che opprime milioni di donne e si fregia di risultati sportivi altrui solo a scopo propagandistico.
Come lei altri atleti hanno dovuto abbandonare la Repubblica Islamica come Said Molaei, judoka, a cui il miope governo di Teheran aveva imposto di perdere intenzionalmente la semifinale per non correre il rischio di affrontare un atleta Israeliano in finale, ordine ovviamente e giustamente disertato.
L’atleta ora vive in Germania e deve gareggiare sotto la bandiera della mongolia. Analogo il caso dello scacchista Alireza Firouzja, costretto a rinunicare alla sua cittadinanza per protesta, in quanto gli veniva impedito di gareggiare contro i rappresentanti d’israele.
Questo dell’Iran oggi forse è uno dei casi che dovrebbe più tenere banco, due mesi fa sono state massacrate centinaia di persone in strada che protestavano contro le politiche del regime.
Settimana scorsa sono stati gambizzati degli studenti che manifestavano il loro dissenso contro un regime che ha abbattuto un aereo civile uccidendo 176 persone.
Eventi drammatici ma che sono passati in secondo piano davanti alle foto dei koala e dell’Australia in fiamme, non c’è stato nessun tam tam mediatico a supporto dei ragazzi iraniani che lottano e chiedono a gran voce la libertà.
Quando torni entusiasta da un evento di presentazione di un’iniziativa sulla salvaguardia dei mari, o dei salmoni, o di come sia possibile rendere le filiere produttive più ecosostenibili e cerchi di trasmettere quest’energia positiva sei veramente gasato di come tutti possano contribuire a cambiare le cose.
Può capitare però che davanti a tutto questo entusiasmo ti capiti d’incrociare lo sguardo stupito e sconfortato di qualcuno, che alla tua richiesta di spiegazioni risponde: “si è interessante, ma è strano, da dove vengo io non s’interessano neanche delle persone”.
In quel momento capisci che stai sbagliando qualcosa. Sia chiaro tutte le iniziative a favore dell’ambiente sono più che nobili, ma quando abbiamo iniziato ad accettare il fatto che un canguro meriti più attenzione di una coppia di sposi fatta esplodere in volo il giorno dopo il loro matrimonio?
Istituiamo giornate della memoria per non dimenticare, ma giriamo la testa dall’altra parte quando la polizia spara sugli studenti o un governo fa esplodere un aereo in volo, un aereo su cui erano sedute persone come noi.
La verità è che siamo egoisti e assuefatti alla violenza, pensiamo che quello che non succede a noi non ci riguardi, ascoltiamo i telegiornali come serie tv, ma non realizziamo che quelli che muoiono sugli aerei, nelle strade o nei locali potrebbero essere persone che amiamo.
Oggi non ho parlato di corsa, l’anno olimpico è un anno importante e con sé, oltre al giusto divertimento, deve portare un messaggio di pace e unione profonda.
D’altra parte l’atleta o lo sportivo da sempre sono figure rappresentative della forza nell’immaginario collettivo, e chi è veramente forte usa la sua forza non per prevaricare, ma a supporto di chi ne ha bisogno.