Era un lunedì qualunque, di quelli in cui tutti ti augurano buone vacanze, ma tu sai che devi aspettare ancora un bel po’ per il mare. Poi guardi uno, due, tre post su Instagram e la curiosità cresce. Sembrava una storia fighissima: il deserto del Negev, Israele, 80km, cinque ragazze. Il tempo di scherzarci su coi colleghi e la candidatura per la Negev Adventure era partita, così, per gioco.
Arriva settembre e anche un’ email: fra le 325 candidature arrivate, sono fra le cinque selezionate.
“Questa volta ho fatto un danno per davvero”.
Uno sguardo alla tabella e sembra tutto da rifare. Troppi pochi i chilometri sulle gambe, troppo difficile correre “i lunghi lenti”, poco il tempo per rimediare. E lì ho capito una cosa importante: non sarebbe stata una gara come tutte le altre, con l’ansia da GPS. Dovevo lasciare a Malpensa quel bagaglio di paturnie e preoccupazioni, che troppo spesso mi blocca, e non correre, ma vivere questi 80km.
Ogni passo, ogni chilometro, senza ansie e paranoie, con curiosità e umiltà. Non mi sarei fatta rovinare quest’esperienza da niente e da nessuno, né tantomeno da me stessa e dal mio mio voler essere sempre perfetta.
Sono passati shooting, conferenze stampa, chat di whatsapp infinite, poi, in una domenica mattina che aveva tutta l’aria di essere la prima d’autunno, siamo partite. Ci aspettava un deserto intero.
Il primo giorno è trascorso in viaggio, solo qualche sguardo alle mie compagne: mi piacevano. Che tipe, una diversa dall’altra. “Ma sai che sembriamo proprio una bella squadra?”
Arriviamo al limite del deserto, cena e a letto. L’indomani la sveglia sarebbe suonata all’alba.
Alle 8.00 di mattina io, Eli, Fede, Franci e Ele siamo già in zona Makhtesh Gadol, il cratere grande. Partiamo. L’aria manca dopo soli cinque minuti, la gola è secca, ci sentiamo strane: non sarà come correre in città e nemmeno in montagna, ora ne abbiamo la certezza.
Qualche caduta e tanti sguardi complici, 20km dopo arriviamo al primo traguardo, mano nella mano.
Avevo ragione, sono le compagne che avrei sempre voluto.
Il secondo giorno dobbiamo arrivare in cima al monte Retamim per l’ora del tramonto. “Che ansia, dovremmo essere abbastanza veloci, che qui il sole cade a picco” – “Dai, ma abbiamo le lampade”. Partiamo. Se chiudo gli occhi sento ancora il calore del sole che man mano scompare per lasciare il posto a un venticello prima delicato e fresco, poi sempre più pungente.
Non c’era tempo da perdere. Arriviamo sul Retamim alle 16.45. Ci abbracciamo.
Siamo a metà. I chilometri sulle gambe cominciano a essere tanti, ma sono ancora tanti quelli da fare. Tanti e in salita.
La terza tappa è un susseguirsi di emozioni e paesaggi. Una partenza tranquilla mi fa pensare che quasi quasi mi sono abituata all’aria del deserto. Poi il Makhtesh Ramon, il più grande cratere del deserto israeliano, ci riserva una sorpresa dopo l’altra: chilometri di sabbia, alti dislivelli rocciosi. “Qua non posso cadere! Come fa sennò Fede a venirmi prendere…”. Arriviamo al chilometro 13. “Ragazze, abbiamo più di 11km senza ristoro da ora”. Anche Elisa oggi è un po’ preoccupata.
Da lì un susseguirsi di salite e discese senza sosta (grazie Fede per il supporto), un occhio alla meta, che non sembra arrivare mai, e uno alle compagne, dal momento che ormai dobbiamo prenderci cura una dell’altra.
La mattina del quarto giorno mi sento strana. Ho dormito solo due ore, e so che ne pagherò le conseguenze. Sono stanca, ma cascasse il mondo, si parte, in un modo o nell’altro anche questi 21 km finiranno. Poi rileggo le parole che volevo sentirmi dire: “Ti sento giù, non farti scoraggiare dalla stanchezza, solo testa e cuore adesso”.
Partiamo con la consapevolezza che anche nel deserto ogni tanto piove: “Attente ragazze, l’acquazzone dei giorni scorsi ha modificato i sentieri naturali. Fidatevi solo dei cartelli di Gianni.”
La quarta tappa è trascorsa così, prendendomi quel tempo tutto per me, ascoltandomi e facendo scorta di quegli scorci che tanto mi serviranno nell’uggia milanese.
Con le ragazze ci aspettiamo, decidiamo che era giusto pure metterci a ballare all’ultimo ristoro. Eravamo arrivate, rimaneva soltanto prenderci per mano e arrivare insieme, ancora una volta, al traguardo finale, quello più importante.
Festeggiamo, ora ci aspetta solo il mare.
La Negev Adventure è forse stata una delle esperienze più belle della mia vita, non solo mi ha permesso di conoscere persone eccezionali, ma mi ha dato la possibilità di superare ancora una volta i miei limiti, di perdermi, per poi riscoprirmi più felice e consapevole di prima.
P.S. Domenica ho rimesso le scarpe da corsa e neanche il parco Sempione è più la stessa cosa.
ph credits – Umberto Coa