Vi siete mai chiesti perché alcune persone iniziano a correre? O perché voi stessi avete cominciato? Quando si arriva a un certo punto della propria vita e si capisce che un senso non è ancora stato dato, si cerca un’alternativa, una strada diversa, e magari tra le tante si trova quella che vediamo con più chiarezza, quella che vediamo con il cuore. Una strada che rappresenti i nostri sogni e la nostra natura. Che sappia conciliare l’ambizione della felicità e il bisogno, innato e giusto, di concretezza, il desiderio di fare qualcosa di speciale per percorrerla come più ci piace e come meglio sappiamo fare.
“Volevo solo correre e invece sulla mia strada non faccio che incontrare storie”. Perché Biagio D’Angelo non voleva solo correre, ma cercava qualcosa di cui scrivere e lo ha trovato proprio indossando le scarpe da running e incontrando sulla sua strada persone che gli hanno raccontato una storia. E così il libro si snoda in ragionamenti e racconti dove la corsa diventa il filo conduttore che unisce individui così diversi ma accomunati dallo stesso linguaggio.

Sarà perché il libro inizia parlando della Montefortiana, la regina di tutte le tapasciate che è stata anche la mia prima tapasciata. Sarà perché l’autore abita a pochi passi da casa mia e quindi le strade dei suoi allenamenti sono anche le mie. Sarà perché è riuscito a rendere poetico quel tratto alienante di Naviglio Grande tra San Cristoforo e Trezzano, raccontandone la storia. Tanto che, una delle ultime volte che ci sono andata a correre, ho ripensato alla storia di Chet Baker. “I musicisti vanno a dormire quando i podisti escono di casa”. Sarà per questo e altro che alla fine l’ho cercato anche io Chet, ho cercato il suo fantasma nella nebbia vicino al ponte.
Sarà perché tante, troppe volte mi sono riconosciuta in quello che Biagio ha scritto, come la storia delle partenze sbagliate, quelle in cui parti a razzo e poi non ne hai più: “L’istinto che si impone sul calcolo, l’animale che si desta all’improvviso, la gioia di sentire comandare il proprio corpo, rende la partenza di una corsa come la prima volta che fai l’amore con una donna. L’hai tanto attesa, tanto immaginata e tanto desiderata, che sbagli praticamente tutto”. Sarà perché i personaggi che incontra e descrive sono a tratti affascinanti, come Don Vincenzo, fortissimo atleta ma anche prete, in continua disputa tra la vocazione e la passione (per la corsa), e a tratti reali in tutta la loro umanità, come Constantin, che ho conosciuto e intervistato anche io. Come il bellissimo omaggio a Fabrizio Cosi, che nel libro appare per mostrare la romantica e coraggiosa missione dei Podisti da Marte. “Orecchieasventola” parla di un presente che che non tornerà mai più, ma che continuerà in altre forme, in altre corse, in altre storie.
Sarà per tutto questo che ho amato il libro.
E poi c’è una maratona da correre, con quella M maiuscola reverenziale, per dare un epilogo al libro e un senso a tutto ciò che è stato scritto. L’autore, mentre si prepara ad affrontare la sua, cita i versi di una canzone di Niccolo’ Fabi:
“Ah si vivesse solo di inizi – Ma tra la partenza e il traguardo nel mezzo c’è tutto il resto – e tutto il resto è – costruire – e costruire è sapere e potere rinunciare alla perfezione”.
La linea di partenza di quei 42 km “e qualcosa”, segna l’inizio di quel famoso viaggio che tanti podisti sentono di dover intraprendere per completare la loro storia, perché il mettersi in gioco, il sacrificio, la determinazione e la fatica, vengono sempre ripagati da se stessi. Dipende tutto da noi fare in modo che quel traguardo sia un lieto fine e, come spesso accade, l’inizio di una nuova storia. Allora “Non ci resta che correre”.
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